Sono iniziati ufficialmente lunedì 19 giugno presso il Berlaymont, la sede della Commissione Europea a Bruxelles, i negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Ue. A quasi un anno esatto dal referendum del 23 giugno 2016, che sanciva la decisione del popolo britannico di schierarsi a favore del “Leave” con il 51,9% delle preferenze, prendono avvio le trattative per la Brexit.
Che il “divorzio” fosse nell’aria non era così scontato, ma neppure troppo lontano dalla realtà. L’atteggiamento britannico nei confronti dell’Unione (e prima ancora della Comunità) Europea è stato da sempre caratterizzato da un’insofferenza di fondo e da una non piena integrazione nel sistema comunitario, evidenziato anche dalla mancata adesione del Regno Unito alla moneta unica.
Ciò nonostante, il risultato del voto di un anno fa rappresentò uno choc per i mercati finanziari, con il cambio della sterlina inglese che perse il 10% rispetto al dollaro statunitense e il 7% rispetto all’euro. Dal punto di vista politico, la vittoria del “Leave”, poi, comportò come conseguenza immediata le dimissioni del Premier David Cameron, che l’11 luglio lasciava la leadership del partito conservatore a Theresa May, divenuta il nuovo Primo Ministro britannico.
Il primo passo compiuto dall’esecutivo per l’uscita dall’Unione è stato, come è noto, il ricorso all’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che definisce la procedura per il recesso unilaterale di uno Stato membro dall’Ue. La notifica del ricorso però è arrivata solo il 29 marzo scorso. Ciò significa che le trattative dovranno concludersi al massimo entro il mese di marzo 2019.
Che cosa prevede la procedura di recesso dall’Ue?
L’articolo 50 prevede un meccanismo di recesso volontario e unilaterale di un Paese dall’Unione europea. “Ogni Stato membro – si legge nell’articolo – può decidere di recedere dall’Unione conformemente alle proprie norme costituzionali”. Se sceglie di andare in questa direzione, deve, per prima cosa, informare il Consiglio europeo e negoziare un accordo sul suo ritiro, stabilendo le basi giuridiche per i futuri rapporti con l’Unione europea. I negoziatori hanno a disposizione due anni dalla data in cui viene chiesta l’applicazione dell’articolo 50 per concludere un accordo (termine che però può essere esteso). L’accordo, per entrare in vigore, deve essere approvato da una maggioranza qualificata degli Stati membri e deve ottenere il consenso da parte del Parlamento europeo. Il caso britannico rappresenta una novità nella storia dell’Ue, essendo la prima volta che un Paese membro invoca l’articolo 50.
Lunedì 19 giugno, a Bruxelles sono dunque iniziati, senza rinvii, i negoziati per la Brexit. Regno Unito e Unione europea – rappresentati rispettivamente da David Davis e Michel Barnier – hanno raggiunto un primo accordo sulle tempistiche del negoziato, che si articolerà in quattro sessioni, una al mese, tra il 17 luglio e il 9 ottobre. Molti i temi al centro del primo incontro: dai diritti dei cittadini (sia di quelli britannici che vivono nell’Unione che di quelli dell’Ue che vivono nel Regno Unito) agli aspetti finanziari del “divorzio”, per arrivare al tema complesso del confine con l’Irlanda del Nord. L’idea di una “hard Brexit”, annunciata dalla May lo scorso 29 marzo – che comporterebbe una drastica chiusura all’immigrazione, oltre all’uscita dal mercato unico e dall’unione doganale – sembra perdere terreno a favore di una soluzione più “soft” come quella sostenuta dal Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, che mira a salvaguardare lavoro e crescita economica.
La realtà è che a rendere più debole la posizione del Premier riguardo alla Brexit vi è la situazione di incertezza in cui versa il suo governo, all’indomani delle elezioni anticipate che hanno condotto il partito conservatore ad una vittoria senza la maggioranza necessaria per governare. Non a caso, c’è chi ipotizza, che Theresa May non resterà in carica come Primo Ministro ancora a lungo.
La prima mossa del Premier riguardo alla fase iniziale dei negoziati è arrivata in occasione del Consiglio europeo del 22 e 23 giugno. La proposta che May ha messo sul tavolo è quella di prevedere uno status particolare per i cittadini europei residenti nel Regno Unito da almeno 5 anni, con diritti analoghi a quelli dei cittadini britannici (con possibilità di completare il periodo per chi vi si trova da meno tempo). Tali diritti riguarderanno in particolare assistenza sanitaria, benefits e pensioni. Ovviamente, secondo il Primo Ministro, dovrà valere lo stesso per i cittadini britannici residenti nell’Unione.
La proposta però, nel complesso, non ha convinto le istituzioni europee, che hanno risposto al riguardo in maniera a dir poco tiepida. Per il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, le affermazioni della Premier britannica “sono solo un primo passo, ma insufficiente”, mentre per il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk la proposta della May “rischia di peggiorare la situazione per i cittadini”.
Le conseguenze della Brexit sul bilancio di Bruxelles
In seguito all’uscita del Regno Unito, inoltre, l’Unione europea dovrà far fronte ad un buco di circa 10 miliardi di euro all’anno su un bilancio annuale di 140-150 miliardi di euro. Lo ha dichiarato il commissario europeo al Bilancio Günther Oettinger durante la presentazione del “Reflection paper sul futuro delle finanze europee” mercoledì scorso a Bruxelles. Con la Brexit “andrà via un grande Paese, attualmente contribuente netto” e per questa ragione, nel prossimo decennio, si renderà necessario effettuare dei tagli alla spesa, ha spiegato Oettinger, illustrando le ipotesi contenute nel documento di riflessione. Se, come è probabile, l’Unione europea si troverà nel prossimo futuro ad affrontare nuove sfide che comporteranno l’assunzione maggiori competenze in tema di sicurezza e difesa (nonché nella gestione delle migrazioni), appare evidente che occorrerà trovare nuove soluzioni per compensare il buco di bilancio provocato dall’uscita del Regno Unito.
La richiesta di maggiori contributi agli Stati membri dell’Ue – che attualmente coprono circa l’80% del bilancio comunitario – non appare, tuttavia, una via percorribile. Una soluzione alternativa potrebbe essere quella di accrescere le “risorse proprie” dell’Unione, ad esempio attraverso l’introduzione di nuove imposte come la “corporate tax”, la tassa sulle transazioni finanziarie o sull’emissione di CO2. Premesso che queste ipotesi non appaiono al momento facilmente realizzabili – la proposta di un’imposta sulle transazioni finanziarie è in discussione ormai da diversi anni – la prospettiva di nuovi tagli appare inevitabile. A farne le spese saranno in primo luogo la politica agricola comune (PAC) e la politica di coesione (fondi strutturali).
In quattro dei cinque scenari presenti nel “Reflection paper”, infatti, è prevista una riduzione della quota di spesa per queste due voci del bilancio Ue. Per quanto riguarda la PAC, la proposta contenuta nel documento prevede l’introduzione del cofinanziamento da parte degli Stati membri per le risorse destinate alla politica agricola comune, prima interamente finanziata dall’Ue. I restanti miliardi del buco provocato dalla Brexit potrebbero, invece, essere compensati da tagli alla politica di coesione, vale a dire ai fondi strutturali. Tra le ipotesi in discussione vi è quella di un aumento, anche in questo caso, dei contributi nazionali oppure di una limitazione di tali fondi esclusivamente alle aree meno sviluppate.
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